Ribadisco che King Kong è morto per noi
Un parallelo simbolico ed esoterico tra mito pop e vangelo sacrificale, anche se non è così originale.
Lasciamo da parte, solo per un attimo, la distinzione tra sacro e profano e ricordando a chi legge che sono un devoto eretico (con almeno cinque Bibbie sullo scaffale).
Io vi dico: King Kong è morto per i nostri peccati. Ridete pure. Ma il parallelo con Cristo è troppo potente, troppo oscuro, troppo evocativo per essere solo ironia. In questa rilettura, Kong non è solo un gorilla tragico. È il Salvatore in pelliccia. È il Mostro che redime. È il Totem crocifisso sull’altare dell’Empire State Building. Kong è la belva sacra, il capro espiatorio incarnato. Strappato alla sua isola, venerato come dio totemico, viene catturato, incatenato, profanato. Portato nella Babilonia del nostro tempo, New York, viene esibito in croce, in catene, sotto la scritta “Ottava Meraviglia del Mondo”. Il pubblico ride, applaude, paga. Ma sta celebrando una Passione.
Cristo e Kong: parabole a confronto
Nel Nuovo Testamento, Cristo accetta la croce per salvare l’umanità. Anche Kong sale in alto, non su un monte, ma sull’Empire State. Non portando una croce, ma portando sé stesso, mostro innocente. Non viene inchiodato, ma bersagliato dai proiettili. Non grida “Padre, perdona loro”, ma urla. E quel grido è sacro. Lì, tra acciaio e cielo, Kong viene crocifisso dalla modernità, dalla vanità, dalla paura del diverso.
Il grattacielo è la croce. Le eliche degli aerei sono i chiodi. La città guarda. Alcuni tremano, altri sorridono. Come davanti al Cristo in agonia, la folla è divisa. Chi prova pietà. Chi assiste con morbosa curiosità. Chi si lava le mani. Ma nel momento in cui Kong precipita, il silenzio scende. È un silenzio sacro. Come quello dopo “tutto è compiuto”.
Kong era un dio. Gli indigeni lo sapevano. Lo temevano, lo onoravano, gli offrivano sacrifici. Quando l’uomo bianco lo porta via, è come portare via l’Arca dell’Alleanza. Il mostro non è più dio, ma fenomeno da baraccone. La profanazione è totale. Il dio diventa spettacolo. Il rito diventa business. E il sacrificio si consuma comunque, perché nessun dio può essere incatenato senza che il sangue venga versato.
Re Kong è un sigillo potentissimo. La sua storia è un innesco archetipico: risveglia compassione, paura, colpa. È un Cristo di carne e muscoli, di fango e furia. Un eggregore costruita con la stessa materia dei sogni e degli incubi. La sua morte è rituale. La sua figura, invocabile. Chi lavora con l’immaginazione attiva sa: Kong è un archetipo vivo. Può essere onorato. Può essere amato. Ogni spettatore è personaggio della Passione. Alcuni sono Giuda, altri Maria, altri Pilato. Alcuni godono nel vedere il mostro cadere. Altri piangono. Come nei Vangeli, la reazione al sacrificio è rivelatrice. Chi sei tu davanti alla morte del diverso? Applaudi? Filmi? Ti indigni? Chiedi il bis? O guardi in silenzio e comprendi che quella creatura enorme ha rivelato la tua miseria?
Prefesione di una fede minore
La vera colpa non è aver amato una bestia. È averla usata. È la brama di dominio. È il colonialismo esistenziale. L’uomo prende ciò che non comprende, lo rende oggetto, lo distrugge. Cristo fu ucciso dai sacerdoti del potere. Kong dai produttori dello spettacolo. Entrambi vittime della stessa logica: annientare ciò che non può essere controllato.
Ma non tutti credettero. Non tutti piansero. Alcuni tornarono alle loro vite dicendo: “È finita. È morto. Finalmente.” Come dopo ogni evento sacrificale, il mondo si divide: chi ha orecchie per udire, e chi vuole dimenticare. Alcuni si inginocchiano davanti al cadavere della bestia. Altri pensano solo ai danni alle infrastrutture.
Il Chaos insegna (o qualunque forza vogliate): non c’è autorità tranne il simbolo che accetti. E così il mito di Kong si è trasmesso. Come il Vangelo. Come la Morte e Resurrezione. Ogni generazione ha avuto il suo gorilla. Ogni spettatore, il suo Calvario. Il cinema è diventato il Tempio. Il mostro, il martire. La cultura pop, un nuovo testo sacro.
Kong è morto per i nostri peccati. Non perché li abbia compresi, ma perché li ha subiti. Il suo sacrificio è reale. È esoterico. È mitico. Ed è nostro. Non tutti crederanno. Non tutti ricorderanno. Ma alcuni, nei momenti di crollo, quando il mondo si fa altissimo e inospitale, guarderanno in alto e diranno:
“Era solo una bestia.”
“No. Era un dio.”
E ci ha perdonati lo stesso.